domenica 21 agosto 2011

Il Pdl, il Pd e la questione morale: la giustizia è uguale per tutti?

Recentemente mi soffermo a riflettere dinnanzi agli eventi della quotidianità. Eventi che in politica, come ben si sa, non hanno nulla di razionale. Ed ecco allora riflettere su un concetto base della nostra costituzione, che all’art. 3 recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Lo si legge anche nelle aule dei nostri Tribunali, dove a chiare lettere si può notare la fatidica dicitura: “La legge è uguale per tutti”. Ma poniamoci un semplice interrogativo: è davvero uguale per tutti?
I recenti casi che vedono coinvolti nel ciclone giudiziario numerosi esponenti politici, di destra e di sinistra, ci fa riflettere su come sia strano che il comune cittadino, ovvero colui che paga le tasse e conduce una vita “normale”, qualora abbia un problema di natura giudiziaria, dal più banale al più complesso, sia soggetto a quelle leggi che regolamentano la “giustizia” italiana. Nulla di strano se non fosse che quelle stesse leggi a volte sembrano essere solo “carta straccia” per i politici che attraverso lo “scudo” dell’espletamento del loro ruolo pubblico, si rendono immuni da qualsiasi eventuale arresto.
L’art. 68 della nostra carta costituzionale infatti recita al secondo e terzo comma: “Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazione, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”.

In poche parole è consentito dunque sottoporre ad indagini i parlamentari senza richiedere l'autorizzazione della Camera di appartenenza, ovvero arrestare il parlamentare in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna e mettere in arresto il parlamentare nel caso in cui sia colto nell'atto di commettere un reato per cui è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza.
Di contro non è consentito all'autorità giudiziaria, senza la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza del deputato: sottoporre a perquisizione personale o domiciliare il parlamentare, arrestare o privare della libertà personale il membro del Parlamento ad eccezione di una sentenza irrevocabile o della flagranza, e procedere ad intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni e a sequestro della corrispondenza.
Con la riforma del 1993 si escluse dall'immunità parlamentare il caso in cui un deputato dovesse essere perseguito in virtù di una sentenza di condanna passata in giudicato e si eliminò la necessità dell'autorizzazione a procedere per sottoporlo a procedimento penale.
Per chiarezza sottolineiamo anche che il parlamentare, qualora cessi dall’esercizio delle sue funzioni, torna a subire i provvedimenti in precedenza soggetti ad autorizzazione.

Insomma, un vero e proprio caso di “Casta della politica”, dove è il Parlamento che giudica sulla autorizzazione, o meno, agli arresti dei nostri “bravi” e “cari” deputati e senatori.
Il caso del deputato Pdl ed ex magistrato, Alfonso Papa, coinvolto nell’inchiesta P4, è il primo in cui il Parlamento ha autorizzato l’arresto di un suo componente.
Ma mentre da un lato si autorizzavano gli arresti di Alfonso Papa, dall’altro il Senato negava gli stessi all’esponente Pd, il senatore Alberto Tedesco.
Casi che comunque fanno emergere come all’interno dei “palazzi del potere” vi siano sempre più politici che badano, forse non sempre lecitamente, più agli interessi personali che a quelli per i quali sono stati chiamati a espletare il proprio mandato. A questi infatti si aggiungono quelli recentissimi di uno dei massimi esponenti del Pd, Filippo Penati , o di quello del Pdl, Marco Mario Milanese.
Insomma che sia frutto di una logica politica o meno, il comune cittadino si interroga se innanzitutto esista la cosiddetta “questione morale” all’interno dei partiti; e poi se vi sia o meno un principio egualitario che veda realmente applicata e applicabile la giustizia per tutti, senza distinzione alcuna.
Insomma, la legge è uguale per tutti, ma non tutti sono uguali.

Francescochristian Schembri

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